Un’intervista con Roberto Bonino – Parte 3
Cari Amici e Lettori, non vi abbiamo dimenticato, e abbiamo preferito mettere in pausa la nostra intervista multipla con Roberto Bonino a causa dell’emergenza sanitaria che intercorre. Ma adesso, pronti a ripartire Lunedì 18 Maggio, ecco qui l’ultima parte!
Cosa è cambiato nel modus operandi di Bonino da quando sei arrivato tu?
Ho iniziato ad affiancare mio padre perché tra noi mancava una comunicazione elastica, lui era quadrato ed io un casino. Due poli opposti di una calamita. È stata una relazione sanguinosa, ma devo ammettere che è stata proficua.
Abbiamo cominciato a fare abiti su misura, cosa che a mio padre non piaceva che dicessimo. Lui era un uomo di altri tempi, e per lui andare dal sarto a fare un abito su misura voleva dire andare nell’appartamento di un signore a farsi prendere le misure. E visto che noi eravamo un negozio, una camiceria, secondo lui questo meccanismo non poteva funzionare da noi, perché non aveva senso che noi prendessimo le misure al cliente per poi andare da un sarto a fargli fare l’abito. Non era questo l’abito su misura per lui.
Come si definiva in quei tempi un abito fatto su misura? Bespoke?
Il fenomeno bespoke, che oggi vive un ritorno, si faceva tanto tempo fa, ma poi per un certo periodo non è stato più propriamente fatto. Bespoke è la composizione di be e spoke, ovvero venire detto al sarto quello che vuole essere realizzato. Per tanti anni si è parlato di bespoke quando si parlava solo un commerciante che poi si interfacciava lui con gli altri attori. Il bespoke vero è si avere un consulente, che è come se fosse il tuo architetto, ma con il maestro d’arte affianco che decide come poi sarà eseguito il lavoro. Per una camicia avviene la stessa cosa, io posso architettare la struttura di una camicia, ma poi sono le sarte che decidono effettivamente come è meglio eseguirle.
Quindi un po’ architetto e un po’ mediatore forse.
Tutto quello che esce da qua con il nostro nome deve avere anche una nostra firma estetica. E’ vero che non sono io che mi metto ad assemblare la giacca, ma voglio che esca con gli standard che voglio io. Poi, permetto al cliente di capire quello che è il suo standard, aiutandolo a capire cosa è più adatto per lui e, scoprendo il suo stile, cerco di accontentarlo.
Il cliente va accontentato anche ai limiti del possibile?
Non esistono limiti alla fantasia in sartoria, una volta ho fatto un frac bianco di lana gessato di un inserto in seta lucida. Non ero molto d’accordo sullo stile, ma questo per dimostrare che davvero in sartoria qualsiasi idea può essere tramutata in realtà.
Oggi il cliente è sicuramente più esigente. Cosa è cambiato nell’approccio di un sarto verso il cliente?
I sarti degli anni ’70 e ’80 facevano principalmente abiti, e ognuno li faceva a modo suo. Non li facevano a modo del cliente, ma esclusivamente secondo il loro stile. Mio padre spesso mi diceva che riusciva a capire dove ogni cliente si vestiva in funzione di come era vestito. Riconosceva la forma, il dettaglio. Il lato negativo, però, è che se vai da uno di questi sarti e gli chiedi di allargarti il rever o di spostarti la tasca, non accetteranno mai, e qui un po’ si perde la ricerca del tuo stile personale. Oggi soprattutto bisogna essere più flessibili, e trovare insieme al cliente la soluzione ideale. Il bespoke come lo abbiamo definito prima è il cliente che dice al sarto cosa vuole, non il sarto che dice al cliente come si deve vestire.
Roberto, qual’è il tuo stile come creativo?
Io sposo a pieno quello che era la sartoria ottocentesca, esagerata, il vero bespoke. Era la sartoria che produceva per personaggi noti della letteratura, i dandy del tempo, che grazie ad essa hanno potuto dare libero sfogo al loro estro, forse a volte anche troppo. Però guardando le foto di fine ottocento notavi che ognuno era vestito a modo suo, e se ti capitasse di recuperare una scatola di cravatte, papillon o sciarpe in seta utilizzate a metà o fine ottocento, troveresti dei colori esagerati, fucsia, giallo oro o verde smeraldo. Cose che invece nella sartoria italiana non esistevano più, a favore di una standardizzazione massiccia.
Perché oggi non c’è più l’affluenza di clienti in sartoria?
Il cliente interessato sicuramente continua ad andarci. La sartoria è come un negozio di biciclette, se sei appassionato di biciclette, vai in un negozio e ti fai fare la bicicletta su misura. Se invece sei appassionato di pesca, non entri in un negozio di biciclette. Oggi la gente non entra più in sartoria perché non è più interessata all’abito sartoriale. La sartoria è diventata una passione dedicata a pochi, mentre una volta era lo standard per tutti. Non sono sicuro sia un passaggio negativo, perché sicuramente permette alla sartoria di preservare la sua missione e di non abbassare il proprio livello.
Prima di salutarci, un’ultima domanda. Qual’è la strada per il futuro della sartoria da seguire?
(Roberto tira fuori il coffee book sulla storia di Ralph Lauren di cui vi accennavo nella prima parte, e me lo apre davanti. ndr)
“Non ci può essere futuro nella moda se non capiamo da dove veniamo, quali sono le fondamenta dello stile maschile”
A cura di: Matteo Bruzzo Galloni
Bonino 1933 vi aspetta da Lunedì 18 Maggio nell’atelier di Via XX Settembre 14/1, previo appuntamento.
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